lunedì 28 novembre 2022

Tutto ciò che avreste sempre voluto sapere sulle vostre fobie e non avete mai osato chiedere

Tutto ciò che avreste sempre voluto sapere sulle vostre fobie e non avete mai osato chiedere.

Cinque psicopatologie di cui (quasi) tutti soffriamo.

 

Di Vincenzo Gambardella

 

A Napoli risuona spesso un vecchio detto: “A capa è ‘na sfoglia ‘e cipolla!”

Tradotto in lingua italiana, il brocardo suona più o meno come: “la testa è una sfoglia di cipolla”. In questo caso la cipolla è paragonata alla mente dell’uomo, fragile e sottile. Basta quindi un piccolo avvenimento per farci mutare l’umore. Non solo. Le delicate sfoglie dell’ortaggio simboleggiano la fragilità del cervello umano che può compiere scelte anche bizzarre, talvolta incomprensibili, sottoposto ai mutevoli venti della vita. Romantico e popolare, non c’è che dire. Ma è davvero così?

Siamo dunque tutti così incostanti, fragili e volubili dinanzi all’inaspettato? La nostra razionalità è realmente così limitata?

Uno psicologo americano, Alexander Lowen (1910 – 2008), ha voluto vederci chiaro. Lowen è partito dall’evidenza empirica dei suoi “casi clinici”, per giungere ad una teoria unificante che aiutasse a spiegare i nostri comportamenti e le reazioni irrazionali (civili ed incivili) rispetto allo standard mediano che la società civile generalmente ci impone di tenere.


 

Il suo lavoro si è incentrato sullo studio del carattere dell’essere umano, per comprenderne i comportamenti.

Il carattere, secondo tale studioso, è la struttura difensiva costruita attorno al nostro IO, la parte più recondita e sensibile del nostro essere. L’edificazione di tale “fortezza” attraverso la quale ci mostriamo ed interagiamo con gli altri esseri umani, viene fortemente plasmata in due fasi critiche della nostra esistenza: l’infanzia e la (pre) adolescenza.

Due periodi in cui impariamo e re-impariamo il mondo e le modalità di interazione con gli altri esseri umani. Due momenti in cui ci mettiamo inconsciamente in discussione, alla luce delle esperienze emotive che realizziamo.

Due tempi della nostra esistenza in cui siamo chiamati a rivoluzionare noi stessi, sotto un alone di estrema fragilità, di incertezza, per poi evolvere. Pronti ad affrontare il mondo dopo aver “fatto la muta” e aver ri-sintonizzato il nostro essere. (ammesso che tutto vada per le buone).

Non è un processo facile per dei bipedi implumi dotati di anima, per dirla alla Platone. È un percorso accidentato fatto di traumi e micro-traumi, più o meno laceranti, che si sedimentano nel nostro IO, nella nostra memoria più recondita (la ROM Read Only Memory dei PC, per fare un paragone informatico). Esperienze che emergono prepotentemente in situazioni di stress, quando l’impalcatura della “maschera” che portiamo non regge alle pressioni esterne del mondo, e il nostro subconscio sale alla ribalta, con delle reazioni anomale.

Per inciso, la moderna neuropsichiatria sta oggi sposando le tesi di Lowen con i lavori pioneristici di Sigmund Freud. Secondo tale scienza, tutto ciò che noi apostrofiamo come “inconscio”, altro non sarebbe che la memoria “emotiva” delle nostre esperienze infantili ed adolescenziali, sedimentate nella memoria ippocampica nonché nelle strutture sottocorticali del cervello. Freud ha scoperto gli atomi dell’anima, senza possedere gli strumenti per misurarla! La regressione psichica, una delle tecniche di indagine psicoanalitica, in tal senso aiuta a valicare le mura del nostro carattere, sino a farci rivivere quelle esperienze che ci hanno segnato, localizzando dov’è che la centralina ha fatto tilt, possibilmente riparando il guasto.

Naturalmente il processo evolutivo degli esseri umani non è esclusivamente una valle di lacrime! A volte dei microtraumi espressi con dei perentori “No!” servono a raddrizzare una piantina che cresce.

Si pensi al complesso edipico, molto mitizzato dalla letteratura. Generalmente il legame di eros che un bambino prova col proprio genitore, in virtù del primo sfregamento della pelle (es. allattamento), del calore dell’abbraccio, del battito cardiaco altrui avvertito tramite il proprio corpo, viene “risolto” con dei piccoli dinieghi. Ad esempio non dormire più nello stesso letto dei genitori, non fare il bagnetto insieme, non stare nella stanza da letto mentre si cambiano i vestiti, ecc. ecc.

Considerando che un bambino non possieda la maturità per comprendere il contesto che lo circonda, questi “no” inaspettati, da un giorno all’altro, costituiscono dei micro-traumi. Che però risultano necessari e “salutari” nell’aiutarci a crescere, come esseri umani.

Lo stesso dovrebbe accadere in adolescenza, quando la ricerca spasmodica del nostro IO da riplasmare incontra il riprovo sociale a dei comportamenti più o meno fuori dalle regole, o addirittura inurbani!

 

Ma quando i traumi non vengono risolti, ecco che si genera il corto-circuito dell’anima. L’IO ferito rimane intrappolato nella fortezza del carattere, compressa dalle regole sociali di interazione, spesso sopraffatto dalla frenetica vita moderna e dalle necessità quotidiane.

Tornando al paragone informatico della pagina precedente, noi essere umani siamo in grado di cancellare la RAM, la cd. memoria volatile, delle scocciature quotidiane, con un piccolo sforzo. Ma non possiamo fare altrettanto con la ROM, sedimentata nel livello più profondo del nostro cervello. Essa è il nostro firmware, il nostro marchio di fabbrica, coperto dal Sistema Operativo ad hoc e dalle applicazioni che utilizziamo ogni giorno per sopravvivere. L’inconscio risiede lì e gira in background, come i file di sistema di un PC, pronto a saltare fuori quando appare la temuta schermata azzurra del crash. È allora che ci si appella al File System residuo per ripartire da zero e riconfigurare la macchina, con tutti i tempi e i rischi che ne conseguono.

Rinascere non è mai un processo a costo zero!

Con le dovute proporzioni, tale quadro è più o meno l’architettura della nostra anima. Ognuno di noi ha il suo “punto di ripristino”, che si speri funzioni, all’occorrenza. Naturalmente esistono anche dei traumi in età adulti capaci di sconvolgere il nostro IO (es. uno stupro) violando la fortezza del carattere e marchiando a fuoco il nostro essere più profondo, spesso indelebilmente.

Ma torniamo a Lowen. Lo psicologo ha teorizzato cinque strati psicopatologici, corrispondenti ad altrettanti bisogni/traumi infantili (e spesso preadolescenziali) che non sono stati risolti.

Badate bene: ciò non significa che ad ogni psicopatologia corrisponda un modello criminale! I cinque modelli costituiscono degli archetipi comportamentali. Essi segnano un pathos, una sofferenza dell’IO legata al fatto che essi non siano stati “risolti”. Ovvero, analizzati e superati grazie alla regressione e ad un’analisi introspettiva fatta in età adulta, sospinte dal desiderio di affrontare le proprie magagne.

Queste psicopatologie possono però involvere in comportamenti antisociali, o addirittura criminali, in funzione della loro gravità e della “pentola a pressione” della struttura caratteriale che le contiene, sottoposta al processo continuo di ebollizione dato dallo stress della vita quotidiana. In breve, questi traumi non risolti divengono demoni!

 

Ed eccoci al quadro edificante di Lowen, riferito all’infanzia.

 

Psicopatologia

Bisogni dell’anima irrisolti

Lo/la Schizoide

Esistere

Lo/la Orale

Nutrimento

Lo/la psicopatico

Sostegno

Il/la masochista

Indipendenza

Il/la rigido narcisista

Accettazione

 

 

Lo Schizoide.

 

La psicosi caratteriale schizoide si riferisce al bisogno frustrato in infanzia di essere riconosciuto, di “esistere” quale entità psicofisica. Generalmente il trauma inconscio si registra nel primo anno di vita del soggetto, che “emotivamente” registra di non aver pienamente e soddisfacentemente vissuto l’esperienza del riconoscimento. Sia attraverso la comunicazione fisica, corporea (contatto epidermico con un altro essere umano, accogliente e rassicurante) sia attraverso la comunicazione affettiva “calda” (es. i genitori che dedicano attenzione verbale e giocosa ai propri figli). Crescendo, il bambino affetto da tale pathos insoluto vivrà nel costante timore di essere annichilito, sentirà il vuoto dell’assenza di una figura genitoriale calda e protettiva. Di conseguenza reagirà, anche energicamente, per “tenersi insieme”, reclamando attenzioni con gesti socialmente anomali, dalla diversa intensità/gravità in funzione dell’età evolutiva del soggetto. Lo schizoide vive perennemente proteso tra la paura del vuoto che ha dentro di sé, spesso idealizzato dalla morte, e la fantasia genitoriale di persone amorevoli che si prendano cura di lui. Questo motore di infelicità continua dentro di sé, può degenerare nell’assurda illusoria di “bastare a sé stessi”, in età adulta, come a dire “Io sono speciale”. E giacché il mondo esterno “normale” non sempre è disposto a riconoscere ed accogliere tale “specialità” lo schizoide può esplicare questo pensiero di auto-realizzazione in un mondo fantastico, un universo concepito nella sua mente. Sino a giungere alla paranoia, alla spersonalizzazione delle proprie azioni e ad uno status cd. Borderline.

La meta ideale dello schizoide è “la casa affettiva” Un posto ideale dove egli venga accolto, benvoluto, riconosciuto, e in fin dei conti, amato.
Quando tale aspirazione viene frustrata dalla realtà, l’IO ferito può riemergere da una coltre di apparente normalità, recando con sé rabbia e distruzione. Perché è come se il mondo interno avesse “tradito” le sue aspettative immaginarie, ed è giusto che paghi per tale gesto.

Il “fattore di stress” che può far scatenare tali energie compresse può essere semplicemente una “normale disillusione”. Un rifiuto amoroso, una piccola fregatura commerciale, uno scherzo subito di dubbio gusto, una cattiveria gratuita sul posto di lavoro, possono far esplodere il desiderio di distruzione dell’oggetto/soggetto del tradimento subito.

A livello fisico, lo sguardo dello schizoide, nelle normali interazioni umane, è come perplesso. Come a dire: “Ti capisco, ma io e te siamo troppo diversi, due mondi incomunicabili. Perché io sono speciale”.

Il corpo di tali soggetti è spesso disarmonico, soprattutto nell’apparato locomotore superiore, continuamente teso per “stare su”. I movimenti talvolta possono apparire scoordinati, o comunque compiuti da una persona che fatica a ricomporli in un moto coordinato.

 

 

L’orale

 

La psicopatologia “orale” afferisce al bisogno di essere nutrito. Non solo a livello alimentare, ma soprattutto di amore, e di un contatto fisico caldo e rassicurante. Il messaggio che il soggetto Orale si sforza invano di inviare al prossimo è: “io non sono completo, ho ancora bisogno di nutrimento d’amore. Ciò che ho ricevuto è stato inadeguato, rispetto alle mie aspettative”. Parliamo sempre di memoria “emotiva” formatasi nei primi anni di vita (e successivamente, ma diversamente, in preadolescenza), sedimentata a livello inconscio nella nostra ROM. Il bambino affetto da tale patologia non risolta, spesso si rivolge su ste stesso, ripetendosi un messaggio fuorviante che suona come: “bene, tu non mi hai nutrito. Ma io posso farcela da solo, non ho bisogno di te. Non ho bisogno di nessuno!!”. Uno spot che stride disperatamente contro il reale bisogno inconscio di essere nutrito affettivamente che invece il soggetto vorrebbe esplicitare al mondo, ma che non riesce ad esplodere. Questa frizione continua tra due stati del mondo contrapposti si tramuta in veri e propri demoni che agitano il suo essere. Per ovviare a tale dissonanza che potrebbe portare al crash di sistema, l’individuo Orale cerca una negoziazione tra le due realtà parallele, manipolando la realtà. Manipolando i dati. Manipolando il partner o le persone con le quali interagisce, quando vi riesce. L’Orale deve cambiare le regole del gioco, per non implodere. Ma se il suo gioco non funziona, sovvengono i demoni: vittimismo, auto-commiserazione, delusione, depressione. Cattivi pensieri che devono sfociare, scaricando la propria insoddisfazione sul partner o sulle persone prossime: “non mi capisci, voi non mi capite”, sino a sfociare, talvolta, in un delirio di tipo persecutorio.

Nel mondo reale, l’Orale è un ottimo relatore, affabulatore nel dipingere realtà plausibili future. Perché, come detto, egli/ella cerca di costruire il mondo ideale che gli consente di sanare le frizioni che si agitano nel suo IO. In questo mondo ideale, che egli cerca di trasmetter agli altri, si è sempre in attesa di un “Principe” machiavelliano, impersonato da un’idea, incarnato da una persona fisica o da un mito da raggiungere.

Il corpo generalmente è collassato, morbido. Gli occhi sono dolci, quasi imploranti, sicuramente generano un senso di avvicinamento, come a dire: “ti prego, resta qui con me”. Ciò finché la realtà gioca a favore dell’Orale. Quando il diniego si manifesta, gli occhi divengono duri, freddi, calcolatori. Il corpo si irrigidirà, mostrando l’asprezza interiore vissuta. Nella migliore delle ipotesi, l’Orale abbandonerà l’Humus umano dal quale ha tratto la linfa dell’attenzione e dell’affetto (nel migliore dei casi) per dedicarsi ad attingere energia da altri soggetti.

Nel migliore dei casi…

 

 

 

 

Lo psicopatico

 

Aiutami, rispettami, capiscimi. Ascoltami!”.

Questo è il sostegno emotivo che manca al soggetto psicopatico, in funzione delle carenze affettive non risolte subite nell’infanzia.

“Nessuno mi considerava da bambino”. È la frase che lo psicopatico ripete a sé stesso. Di conseguenza, in età senziente, lo psicopatico vive immerso in un costante state emotivo profondo di essere inadeguato, inferiore rispetto alle aspettative che gli altri esseri umani, e più in generale la società, impone. Siamo sempre nell’ambito della ROM che gira in background nel nostro cervello, ricordiamoci. Apparentemente questi individui possono condurre una vita di interazioni sociali perfettamente normale. Nessuno gira con un cartello appeso al collo dichiarandosi come psicopatico. Ma il fanciullino di Pascoliana memoria che si agita nel profondo dell’Io di questi individui, non perdona.

Questo demone provoca una scissione nell’animo umano. Da bambino il soggetto psicopatico “immagina”, sogna di essere importante. Ma nella realtà avverte di non esserlo. Di qui la frizione: si vive come se si fosse importante, consapevoli di non esserlo. Consapevoli di non avere il coraggio di ammettere il proprio disperato bisogno di aiuto. Anche in questo caso, lo psicopatico si chiude nell’immagine che proietta al mondo esterno, di essere un valido ed efficientissimo essere umano.

Ovviamente il mondo reale non è pronto a reggere il gioco all’infinito a tali soggetti. Come recita la terza legge della Finanza Aziendale: “Non esistono illusioni finanziarie!” Prima o poi il mercato ti prezza per quello che sei e ciò che vali nella realtà. Quindi, allo psicopatico che al mondo esterno mostra un ego da leone, arriveranno le prime batoste. Fregature commerciali, rifiuti d’amore, scherzi di cattivo gusto, mobbing, ecc. ecc. Il campionario di brutture ordinarie è vasto. Il problema è l’eco amplificato dell’effetto di queste vicende. Giacché sotto sotto lo psicopatico vive una realtà “teatrale” ma nel profondo del suo IO è un ingenuo confondibile, il venir giù delle impalcature mentali che ha costruito verso il mondo (leggasi: carattere) può creare una iper-reazione uguale e contraria: “Ok, ho preso una botta. Che vuoi che sia? È solo una cosa transitoria, capita! Io sono ancora il più forte, il più sicuro e il più efficiente tra voi. Non ci credi? Adesso te lo dimostro !!”

Fino a giungere a reazioni incontrollabili. Lo psicopatico deve poter conciliare il vuoto interiore con la maschera esteriore, assicurandosi il riconoscimento altrui delle proprie istanze di onnipotenza.

A qualunque costo.

 

 

Il masochista

 

Voglio essere libero di sperimentare. Senza che tu mi neghi l’amore”.

Lo spot irrisolto che vaga nell’IO più recondito del masochista appare una richiesta condizionata, razionalmente parlando. Ma se tale domanda di libertà viene oppressa nell’infanzia da figure genitoriali (o para-genitoriali) asfissianti, il trauma non viene superato e si stampa indelebile nella ROM del soggetto masochista. Di conseguenza, l’adulto affetto da tale pathos, sarà riconoscibile per un tratto chiarissimo: la sua incapacità di affermare un “No” deciso (ma civile) al prossimo all’occorrenza, e la sua incapacità di distaccarsi dal partner nelle scelte di vita ordinarie e strategiche.

Spesso i bambini masochisti sentono di essere vittima di un ricatto emotivo da parte delle persone che più amano (es. “se sei un bravo bambino, allora non puoi farlo assolutamente!!”). Ricatto che sentono “emotivamente”, ma al quale non hanno forza sufficiente per rispondere a tono. Di conseguenza la risposta caratteriale è assertiva: “va bene, mi piego. Soffro, mi comprimo nel mio essere, pur di non perdere il tuo amore”. Crescendo, il soggetto masochista si mostrerà come il classico amico/amica sempre disponibile a venire incontro a tutte le richieste della propria cerchia affettiva di soggetti con i quali interagisce. Perché in fondo il mondo lo apprezza per questo suo saper fare un passo indietro. Per il suo sacrificarsi per gli altri. È solo per questo che egli/ella viene amata, gli suggerisce una voce che viene dalla ROM.

Il rovescio della medaglia è la deresponsabilizzazione delle proprie azioni. “Io ho fatto quello che potevo per accontentarti, se le cose non vanno non è colpa mia. Ma tua”. Questo modus operandi diventa una costante auto-giustificazione alle proprie azioni, in funzione della delega imposta da un’Autorità superiore, imposta sotto la minaccia sottesa di uno sciopero nella fornitura di amore. Per sopravvivere alle frizioni che si scontrano nel suo IO, il masochista deve trovare un equilibrio fatto di ambiguità (giustificazioni e scuse…) lamentosità verso il prossimo (per sminuirne ex ante le richieste), disfattismo (ok, proviamo, ma sappi che non c’è speranza di risolvere il problema!).

C’è un piccolo particolare, che stona con il modello comportamentale: la realtà. Il mondo non sempre è disposto ad agire con ambigui molluschi. Prima o poi ti inchioda ai tuoi doveri. Sociali, professionali, o affettivi. Ed’ è allora che sorge il fattore di Stress nel masochista, direttamente dalla ROM. Preludio ad una iper-reazione che può anche divenire incontrollabile. Ciò perché si ripropone lo scenario genitori – figli. Superata una certa soglia di tolleranza, scatta la rabbia genitoriale che si sostanzia in punizioni più o meno blande o incisive.

Il fanciullino che vive nel masochista “evoca” la rabbia materna (o paterna) subita. Questa energia così forte provoca la reazione di difesa del bambino che cerca in ogni modo di attenuare la sofferenza della punizione subita, giustificata dalla classica frase: “lo faccio per il tuo bene, un giorno capirai”. Ed è proprio quest’affermazione a scatenare la psicopatologia. Il fanciullino, anche se compresso da genitori asfissianti, sente in parte che in fondo i suoi genitori lo facciano per proteggerlo, per farlo crescere meglio. C’è una parte di sé “perversa” che interpreta queste punizioni come attenzione e “amore”, per quanto patologico, riversato dalle figure genitoriali. In età adulta, il masochista ha bisogno, sotto stress, di rivivere quell’esperienza a suo modo triste ma rassicurante. Così, talvolta egli/ella diventa provocatorio. Quasi insegue la rabbia degli altri. Perché quella rabbia è catartica. Il masochista può scontare la punizione, ritornando a quello stato di grazia del bravo bambino che segue la retta via, in cambio dell’amore dei genitori. In età adulto, tutto “per un pugno di attenzione”. Un meccanismo perverso nel quale il Masochista si crogiola, difficile da spezzare.

A livello fisico il modello ideale masochista adulto rivede un corpo poco mobile e con molta energia compressa. Gli occhi sono melanconici, quasi rassegnato a questo stato di cose di un’energia calata dall’alto, rassicurante e punitiva allo stesso tempo.

 

 

 

Il rigido narcisista

 

Sembra assurdo, ma anche nei nostri tre anni di vita, a livello emotivo tutti noi possiamo inconsciamente avvertire il bisogno di essere accettati a livello sentimentale e sessuale. Ciò vale in special modo verso il genitore dell’altro sesso.

Ovviamente, quando si usa l’aggettivo “sessuale” in tale contesto, la cosa va ben specificata. Com’è logico attendersi, qui non parliamo di un rapporto sessuale completo, come avviene tra esseri umani adulti (e si spera senzienti). Qui l’eros è inteso in senso Freudiano: quella sensazione di benessere psicofisico che il bambino prova nel contatto fisico con il genitore dell’altro sesso, per sfregamento/induzione dell’epidermide con un corpo grande, caldo, accogliente. Un corpo che abbraccia, che protegge, che coccola. Che odora, che trasmette il ritmo vitale del battito cardiaco, che è fermo nella presa ma dolce nel tenere il proprio essere. Che nutre, attraverso l’allattamento. Che ci crediate o no, quella sensazione di piacere rimane sedimentata nel nostro ego più profondo, e ci rende talvolta “assetati” di rivivere l’esperienza, traslata in forma adulta. Pensateci: spesso si legge che le donne vorrebbero vivere una sessualità con il proprio partner fatta di abbracci, di carezze e di baci, di un tono di voce basso e conciliante, di abbandono, di rilassatezza estatica, prima dell’atto sessuale vero e proprio. Conseguenza naturale-riproduttiva, e non premessa, per fare l’amore.

L’esatto contrario della mitologia dei film pornografici, basati sulla visione di un potere fallocratico, invasivo del copro femminile.

Tutto casuale? Non proprio, secondo Lowen.

Il senso di rifiuto da tale contatto erotico, secondo lo psicologo americano, fa sorgere un trauma nel bambino, sedimentato nella ROM, e che agisce in background da adulto, come nei casi precedenti. Il condizionamento educativo che verrà impartito al bambino (religioso, sociale, culturale) fungerà da catalizzatore di tale gap affettivo, sino a che il desiderio sessuale più maturo (es. in preadolescenza) verrà vissuto come una colpa. “Perché lo faccio? È sbagliato! Da bambino mi rifiutavano, mi allontanavano.” Elucubra la nostra centralina.

Di qui la scissione interna, che può tramutarsi in un vero e proprio demone: da una parte, il legittimo desiderio di una sessualità vera con il partner desiderato. Dall’altra, l’incapacità di lasciarsi andare completamente a tale esperienza, avvinti dai dubbi installati nel firmware. Da questo contrasto, la patologia sessuale. Che può mostrare un diorama di sfaccettature: si va dalle continue fantasticherie sessuali (es. eccessivo consumo di porno), alla masturbazione (come diceva Woody Allen: “in fondo è fare del sesso con una persona che si ama davvero”). Oppure alla iper-sessualità, che, per paura di “amare” emotivamente il partner, può scadere nella ripetuta, ossessiva, meccanicità dell’atto sessuale. All’opposto può esservi una eccessiva “mitizzazione” dell’amore, visto in misura “platonica”, solo sentimentale, mentre l’amore carnale viene visto come qualcosa di sporco e/o peccaminoso.

Ma perché accade tutto ciò? Perché inconsciamente, l’adulto rigido-narcisista rivive il trauma infantile sepolto nella ROM: il rifiuto!
E per evitare di affrontare tale demone, il cervello elabora delle strategie di evitamento/compromesso dello spinoso problema che provoca sofferenza. Il rigido narcisista ha letteralmente “paura” di lasciarsi andare sentimentalmente, arrendendosi finalmente ai suoi sentimenti. Perché significherebbe essere fragili, indifesi alla sofferenza del non essere accettati. Meglio buttarla sul sesso anaffettivo. È più facile!

Ma allo stesso tempo tale meccanismo genera un senso di inappagamento dell’anima, proprio perché sessualmente il partner viene vissuto come un oggetto, e non un soggetto che completa la propria esistenza, nel bene e nel male. Quindi il rigido-narcisista ha bisogno continuamente di “alzare l’asticella”, per godere temporaneamente di emozioni che colmino tale gap. E quando a livello sessuale ciò non accade, egli/ella attua un “transfert” nella vita reale, sfidando sé stesso oltre ogni limite, oltre ogni ragionevolezza, per raggiungere effimeri traguardi sempre più elevati, in preda ad un perenne senso di insoddisfazione.

Anche in questo caso, c’è il terzo incomodo con cui fare i conti: la vita reale. Il mondo, che non sempre tollera i palloni gonfiati, per quanto capaci. Prima o poi, come accade a tutti i normali esseri umani, sovviene la sconfitta. Che viene vissuta come un dramma dal rigido-narcisistico, quasi una “Caduta degli Dei” che spazza via il castello di carte che ha costruito per sostenere la sua esistenza. A livello caratteriale, non è impossibile riconoscere tali individui: “sapientoni” (talvolta inattendibili), efficienti, ostinati, controllati nei sentimenti, il loro cuore è “mediato” dalla razionalità, vive nella perenne illusione di essere amato senza amore. (ma L’amore con l’amore si paga, come canta Fiorella Mannoia). Ovviamente tali livelli di stress da competizione, incidono sul corpo, instradando tali soggetti verso le tipiche patologie da stress (cardiovascolari, ulcera, emicranie, ecc.). A livello sessuale, vista l’incapacità di amare realmente per la paura atavica del rifiuto, questi soggetti sono sensibili a disfunzioni quali anorgasmia, eiaculazione precoce, impotenza. Ma allo stesso tempo possono desiderare di vivere situazioni di perversione sessuale, per “alzare l’asticella”, godendo dell’effetto dopaminico temporaneo, destinato a spegnersi. Insomma, i rigidi-narcisisti sono incapaci di godersi appieno la vita, con tutto il bene e il male che essa comporta, perché non si liberano dai demoni atavici che li tormentano. Così cercano palliativi competitivi. Il lato “positivo” di tale psicopatologie è il fatto che spesso tale tensione interiore “esploda” nella creatività. Si ritiene infatti che molti poeti, filosofi o scrittori, abbiamo sofferto della sindrome rigida-narcisista.

La postura e l’aspetto fisica di queste persone, sono facili da immaginare. Prorompenti ad ogni costo (muscoli o bisturi), mostrano fisicamente il lato competitivo assoluto del proprio carattere.

In sintesi, cosa accomuna i cinque modelli ideali descritti da Lowen?

I blocchi energetici. Ad ognuno dei fenotipi idealizzati, corrisponde una “maldistribuzione” dell’energia vitale, che si concreta in una differente postura propria, nonché nelle diverse proporzioni degli arti e del busto.

La psicodinamica restituisce indizi concreti che uno psicoterapeuta può verificare, come riprova delle intuizioni ottenute dalle sedute psicoanalitiche.


C’è dell’energia che non rifluisce bene. Perché è compressa in delle strutture difensive caratteriali che isolano il proprio IO. Già, il carattere. Quelle mura che proteggono noi stessi e gli altri dall’esplosione o dall’implosione dell’Ego, messi sotto stress. E che ci impedisce di comunicarci realmente gli uni con gli altri, in quanto esseri fragili e mortali.

Ma questa, è un’altra storia.

 (Bibliografia. Caratteriologia, Armando Traetta, Armando Editori)