Tutto
ciò che avreste sempre voluto sapere sulle vostre fobie e non avete mai osato
chiedere.
Cinque
psicopatologie di cui (quasi) tutti soffriamo.
Di
Vincenzo Gambardella
A Napoli risuona spesso
un vecchio detto: “A capa è ‘na sfoglia ‘e cipolla!”
Tradotto in lingua
italiana, il brocardo suona più o meno come: “la testa è una sfoglia di cipolla”.
In questo caso la cipolla è paragonata alla mente dell’uomo, fragile e sottile.
Basta quindi un piccolo avvenimento per farci mutare l’umore. Non solo. Le
delicate sfoglie dell’ortaggio simboleggiano la fragilità del cervello umano
che può compiere scelte anche bizzarre, talvolta incomprensibili, sottoposto ai
mutevoli venti della vita. Romantico e popolare, non c’è che dire. Ma è davvero
così?
Siamo dunque tutti così
incostanti, fragili e volubili dinanzi all’inaspettato? La nostra razionalità è
realmente così limitata?
Uno psicologo
americano, Alexander Lowen (1910 – 2008), ha voluto vederci chiaro. Lowen è
partito dall’evidenza empirica dei suoi “casi clinici”, per giungere ad una
teoria unificante che aiutasse a spiegare i nostri comportamenti e le reazioni
irrazionali (civili ed incivili) rispetto allo standard mediano che la società
civile generalmente ci impone di tenere.
Il suo lavoro si è
incentrato sullo studio del carattere dell’essere umano, per comprenderne i
comportamenti.
Il carattere, secondo
tale studioso, è la struttura difensiva costruita attorno al nostro IO,
la parte più recondita e sensibile del nostro essere. L’edificazione di tale
“fortezza” attraverso la quale ci mostriamo ed interagiamo con gli altri esseri
umani, viene fortemente plasmata in due fasi critiche della nostra esistenza:
l’infanzia e la (pre) adolescenza.
Due periodi in cui
impariamo e re-impariamo il mondo e le modalità di interazione con gli altri
esseri umani. Due momenti in cui ci mettiamo inconsciamente in discussione,
alla luce delle esperienze emotive che realizziamo.
Due tempi della nostra
esistenza in cui siamo chiamati a rivoluzionare noi stessi, sotto un alone di
estrema fragilità, di incertezza, per poi evolvere. Pronti ad affrontare il
mondo dopo aver “fatto la muta” e aver ri-sintonizzato il nostro essere.
(ammesso che tutto vada per le buone).
Non è un processo
facile per dei bipedi implumi dotati di anima, per dirla alla Platone. È un
percorso accidentato fatto di traumi e micro-traumi, più o meno laceranti, che
si sedimentano nel nostro IO, nella nostra memoria più recondita (la ROM Read
Only Memory dei PC, per fare un paragone informatico). Esperienze che
emergono prepotentemente in situazioni di stress, quando l’impalcatura della
“maschera” che portiamo non regge alle pressioni esterne del mondo, e il nostro
subconscio sale alla ribalta, con delle reazioni anomale.
Per inciso, la moderna
neuropsichiatria sta oggi sposando le tesi di Lowen con i lavori pioneristici
di Sigmund Freud. Secondo tale scienza, tutto ciò che noi apostrofiamo come
“inconscio”, altro non sarebbe che la memoria “emotiva” delle nostre esperienze
infantili ed adolescenziali, sedimentate nella memoria ippocampica nonché
nelle strutture sottocorticali del cervello. Freud ha scoperto gli atomi
dell’anima, senza possedere gli strumenti per misurarla! La regressione
psichica, una delle tecniche di indagine psicoanalitica, in tal senso aiuta a
valicare le mura del nostro carattere, sino a farci rivivere quelle
esperienze che ci hanno segnato, localizzando dov’è che la centralina ha fatto
tilt, possibilmente riparando il guasto.
Naturalmente il
processo evolutivo degli esseri umani non è esclusivamente una valle di
lacrime! A volte dei microtraumi espressi con dei perentori “No!” servono a raddrizzare
una piantina che cresce.
Si pensi al complesso
edipico, molto mitizzato dalla letteratura. Generalmente il legame di eros
che un bambino prova col proprio genitore, in virtù del primo sfregamento della
pelle (es. allattamento), del calore dell’abbraccio, del battito cardiaco
altrui avvertito tramite il proprio corpo, viene “risolto” con dei piccoli
dinieghi. Ad esempio non dormire più nello stesso letto dei genitori, non fare
il bagnetto insieme, non stare nella stanza da letto mentre si cambiano i
vestiti, ecc. ecc.
Considerando che un
bambino non possieda la maturità per comprendere il contesto che lo circonda,
questi “no” inaspettati, da un giorno all’altro, costituiscono dei
micro-traumi. Che però risultano necessari e “salutari” nell’aiutarci a
crescere, come esseri umani.
Lo stesso dovrebbe
accadere in adolescenza, quando la ricerca spasmodica del nostro IO da
riplasmare incontra il riprovo sociale a dei comportamenti più o meno fuori
dalle regole, o addirittura inurbani!
Ma quando i traumi non
vengono risolti, ecco che si genera il corto-circuito dell’anima. L’IO ferito rimane
intrappolato nella fortezza del carattere, compressa dalle regole
sociali di interazione, spesso sopraffatto dalla frenetica vita moderna e dalle
necessità quotidiane.
Tornando al paragone
informatico della pagina precedente, noi essere umani siamo in grado di cancellare
la RAM, la cd. memoria volatile, delle scocciature quotidiane, con un piccolo
sforzo. Ma non possiamo fare altrettanto con la ROM, sedimentata nel livello
più profondo del nostro cervello. Essa è il nostro firmware, il nostro
marchio di fabbrica, coperto dal Sistema Operativo ad hoc e dalle
applicazioni che utilizziamo ogni giorno per sopravvivere. L’inconscio risiede
lì e gira in background, come i file di sistema di un PC, pronto a
saltare fuori quando appare la temuta schermata azzurra del crash. È allora
che ci si appella al File System residuo per ripartire da zero e riconfigurare
la macchina, con tutti i tempi e i rischi che ne conseguono.
Rinascere non è mai un
processo a costo zero!
Con le dovute
proporzioni, tale quadro è più o meno l’architettura della nostra anima. Ognuno
di noi ha il suo “punto di ripristino”, che si speri funzioni, all’occorrenza.
Naturalmente esistono anche dei traumi in età adulti capaci di sconvolgere il
nostro IO (es. uno stupro) violando la fortezza del carattere e marchiando a
fuoco il nostro essere più profondo, spesso indelebilmente.
Ma torniamo a Lowen. Lo
psicologo ha teorizzato cinque strati psicopatologici, corrispondenti ad
altrettanti bisogni/traumi infantili (e spesso preadolescenziali) che non sono
stati risolti.
Badate bene: ciò non
significa che ad ogni psicopatologia corrisponda un modello criminale! I cinque
modelli costituiscono degli archetipi comportamentali. Essi segnano un pathos,
una sofferenza dell’IO legata al fatto che essi non siano stati “risolti”. Ovvero,
analizzati e superati grazie alla regressione e ad un’analisi introspettiva
fatta in età adulta, sospinte dal desiderio di affrontare le proprie magagne.
Queste psicopatologie
possono però involvere in comportamenti antisociali, o addirittura criminali,
in funzione della loro gravità e della “pentola a pressione” della struttura
caratteriale che le contiene, sottoposta al processo continuo di ebollizione
dato dallo stress della vita quotidiana. In breve, questi traumi non risolti
divengono demoni!
Ed eccoci al quadro
edificante di Lowen, riferito all’infanzia.
Psicopatologia
|
Bisogni
dell’anima irrisolti
|
Lo/la
Schizoide
|
Esistere
|
Lo/la
Orale
|
Nutrimento
|
Lo/la
psicopatico
|
Sostegno
|
Il/la
masochista
|
Indipendenza
|
Il/la
rigido narcisista
|
Accettazione
|
Lo
Schizoide.
La psicosi caratteriale
schizoide si riferisce al bisogno frustrato in infanzia di essere riconosciuto,
di “esistere” quale entità psicofisica. Generalmente il trauma inconscio si
registra nel primo anno di vita del soggetto, che “emotivamente” registra di
non aver pienamente e soddisfacentemente vissuto l’esperienza del
riconoscimento. Sia attraverso la comunicazione fisica, corporea (contatto
epidermico con un altro essere umano, accogliente e rassicurante) sia
attraverso la comunicazione affettiva “calda” (es. i genitori che dedicano
attenzione verbale e giocosa ai propri figli). Crescendo, il bambino affetto da
tale pathos insoluto vivrà nel costante timore di essere annichilito, sentirà
il vuoto dell’assenza di una figura genitoriale calda e protettiva. Di
conseguenza reagirà, anche energicamente, per “tenersi insieme”, reclamando
attenzioni con gesti socialmente anomali, dalla diversa intensità/gravità in
funzione dell’età evolutiva del soggetto. Lo schizoide vive perennemente
proteso tra la paura del vuoto che ha dentro di sé, spesso idealizzato dalla
morte, e la fantasia genitoriale di persone amorevoli che si prendano cura di
lui. Questo motore di infelicità continua dentro di sé, può degenerare
nell’assurda illusoria di “bastare a sé stessi”, in età adulta, come a dire “Io
sono speciale”. E giacché il mondo esterno “normale” non sempre è disposto
a riconoscere ed accogliere tale “specialità” lo schizoide può esplicare questo
pensiero di auto-realizzazione in un mondo fantastico, un universo concepito
nella sua mente. Sino a giungere alla paranoia, alla spersonalizzazione delle
proprie azioni e ad uno status cd. Borderline.
La meta ideale dello
schizoide è “la casa affettiva” Un posto ideale dove egli venga accolto,
benvoluto, riconosciuto, e in fin dei conti, amato.
Quando tale aspirazione viene frustrata dalla realtà, l’IO ferito può
riemergere da una coltre di apparente normalità, recando con sé rabbia e
distruzione. Perché è come se il mondo interno avesse “tradito” le sue
aspettative immaginarie, ed è giusto che paghi per tale gesto.
Il “fattore di stress”
che può far scatenare tali energie compresse può essere semplicemente una
“normale disillusione”. Un rifiuto amoroso, una piccola fregatura commerciale,
uno scherzo subito di dubbio gusto, una cattiveria gratuita sul posto di
lavoro, possono far esplodere il desiderio di distruzione dell’oggetto/soggetto
del tradimento subito.
A livello fisico, lo
sguardo dello schizoide, nelle normali interazioni umane, è come perplesso.
Come a dire: “Ti capisco, ma io e te siamo troppo diversi, due mondi
incomunicabili. Perché io sono speciale”.
Il corpo di tali
soggetti è spesso disarmonico, soprattutto nell’apparato locomotore superiore,
continuamente teso per “stare su”. I movimenti talvolta possono apparire
scoordinati, o comunque compiuti da una persona che fatica a ricomporli in un
moto coordinato.
L’orale
La psicopatologia
“orale” afferisce al bisogno di essere nutrito. Non solo a livello alimentare,
ma soprattutto di amore, e di un contatto fisico caldo e rassicurante. Il
messaggio che il soggetto Orale si sforza invano di inviare al prossimo è: “io
non sono completo, ho ancora bisogno di nutrimento d’amore. Ciò che ho ricevuto
è stato inadeguato, rispetto alle mie aspettative”. Parliamo sempre di
memoria “emotiva” formatasi nei primi anni di vita (e successivamente, ma
diversamente, in preadolescenza), sedimentata a livello inconscio nella nostra
ROM. Il bambino affetto da tale patologia non risolta, spesso si rivolge su ste
stesso, ripetendosi un messaggio fuorviante che suona come: “bene, tu non mi
hai nutrito. Ma io posso farcela da solo, non ho bisogno di te. Non ho bisogno
di nessuno!!”. Uno spot che stride disperatamente contro il reale bisogno
inconscio di essere nutrito affettivamente che invece il soggetto vorrebbe
esplicitare al mondo, ma che non riesce ad esplodere. Questa frizione continua
tra due stati del mondo contrapposti si tramuta in veri e propri demoni che
agitano il suo essere. Per ovviare a tale dissonanza che potrebbe portare al
crash di sistema, l’individuo Orale cerca una negoziazione tra le due realtà
parallele, manipolando la realtà. Manipolando i dati. Manipolando il partner o
le persone con le quali interagisce, quando vi riesce. L’Orale deve cambiare le
regole del gioco, per non implodere. Ma se il suo gioco non funziona,
sovvengono i demoni: vittimismo, auto-commiserazione, delusione, depressione.
Cattivi pensieri che devono sfociare, scaricando la propria insoddisfazione sul
partner o sulle persone prossime: “non mi capisci, voi non mi capite”, sino a
sfociare, talvolta, in un delirio di tipo persecutorio.
Nel mondo reale,
l’Orale è un ottimo relatore, affabulatore nel dipingere realtà plausibili
future. Perché, come detto, egli/ella cerca di costruire il mondo ideale che
gli consente di sanare le frizioni che si agitano nel suo IO. In questo mondo
ideale, che egli cerca di trasmetter agli altri, si è sempre in attesa di un
“Principe” machiavelliano, impersonato da un’idea, incarnato da una persona
fisica o da un mito da raggiungere.
Il corpo generalmente è
collassato, morbido. Gli occhi sono dolci, quasi imploranti, sicuramente
generano un senso di avvicinamento, come a dire: “ti prego, resta qui con me”.
Ciò finché la realtà gioca a favore dell’Orale. Quando il diniego si manifesta,
gli occhi divengono duri, freddi, calcolatori. Il corpo si irrigidirà,
mostrando l’asprezza interiore vissuta. Nella migliore delle ipotesi, l’Orale
abbandonerà l’Humus umano dal quale ha tratto la linfa dell’attenzione e
dell’affetto (nel migliore dei casi) per dedicarsi ad attingere energia da
altri soggetti.
Nel migliore dei casi…
Lo
psicopatico
“Aiutami,
rispettami, capiscimi. Ascoltami!”.
Questo è il sostegno
emotivo che manca al soggetto psicopatico, in funzione delle carenze affettive
non risolte subite nell’infanzia.
“Nessuno mi considerava
da bambino”. È la frase che lo psicopatico ripete a sé stesso. Di conseguenza,
in età senziente, lo psicopatico vive immerso in un costante state emotivo
profondo di essere inadeguato, inferiore rispetto alle aspettative che gli
altri esseri umani, e più in generale la società, impone. Siamo sempre
nell’ambito della ROM che gira in background nel nostro cervello, ricordiamoci.
Apparentemente questi individui possono condurre una vita di interazioni
sociali perfettamente normale. Nessuno gira con un cartello appeso al collo
dichiarandosi come psicopatico. Ma il fanciullino di Pascoliana memoria
che si agita nel profondo dell’Io di questi individui, non perdona.
Questo demone provoca
una scissione nell’animo umano. Da bambino il soggetto psicopatico “immagina”,
sogna di essere importante. Ma nella realtà avverte di non esserlo. Di qui la
frizione: si vive come se si fosse importante, consapevoli di non esserlo.
Consapevoli di non avere il coraggio di ammettere il proprio disperato bisogno
di aiuto. Anche in questo caso, lo psicopatico si chiude nell’immagine che
proietta al mondo esterno, di essere un valido ed efficientissimo essere umano.
Ovviamente il mondo
reale non è pronto a reggere il gioco all’infinito a tali soggetti. Come recita
la terza legge della Finanza Aziendale: “Non esistono illusioni finanziarie!”
Prima o poi il mercato ti prezza per quello che sei e ciò che vali nella
realtà. Quindi, allo psicopatico che al mondo esterno mostra un ego da leone,
arriveranno le prime batoste. Fregature commerciali, rifiuti d’amore, scherzi
di cattivo gusto, mobbing, ecc. ecc. Il campionario di brutture ordinarie è
vasto. Il problema è l’eco amplificato dell’effetto di queste vicende. Giacché
sotto sotto lo psicopatico vive una realtà “teatrale” ma nel profondo del suo
IO è un ingenuo confondibile, il venir giù delle impalcature mentali che ha
costruito verso il mondo (leggasi: carattere) può creare una iper-reazione
uguale e contraria: “Ok, ho preso una botta. Che vuoi che sia? È solo una
cosa transitoria, capita! Io sono ancora il più forte, il più sicuro e il più
efficiente tra voi. Non ci credi? Adesso te lo dimostro !!”
Fino a giungere a
reazioni incontrollabili. Lo psicopatico deve poter conciliare il vuoto
interiore con la maschera esteriore, assicurandosi il riconoscimento altrui
delle proprie istanze di onnipotenza.
A qualunque costo.
Il
masochista
“Voglio essere
libero di sperimentare. Senza che tu mi neghi l’amore”.
Lo spot irrisolto che
vaga nell’IO più recondito del masochista appare una richiesta condizionata,
razionalmente parlando. Ma se tale domanda di libertà viene oppressa
nell’infanzia da figure genitoriali (o para-genitoriali) asfissianti, il trauma
non viene superato e si stampa indelebile nella ROM del soggetto masochista. Di
conseguenza, l’adulto affetto da tale pathos, sarà riconoscibile per un
tratto chiarissimo: la sua incapacità di affermare un “No” deciso (ma civile)
al prossimo all’occorrenza, e la sua incapacità di distaccarsi dal partner
nelle scelte di vita ordinarie e strategiche.
Spesso i bambini
masochisti sentono di essere vittima di un ricatto emotivo da parte delle
persone che più amano (es. “se sei un bravo bambino, allora non puoi farlo
assolutamente!!”). Ricatto che sentono “emotivamente”, ma al quale non hanno
forza sufficiente per rispondere a tono. Di conseguenza la risposta
caratteriale è assertiva: “va bene, mi piego. Soffro, mi comprimo nel mio
essere, pur di non perdere il tuo amore”. Crescendo, il soggetto masochista
si mostrerà come il classico amico/amica sempre disponibile a venire incontro a
tutte le richieste della propria cerchia affettiva di soggetti con i quali
interagisce. Perché in fondo il mondo lo apprezza per questo suo saper fare un
passo indietro. Per il suo sacrificarsi per gli altri. È solo per questo che
egli/ella viene amata, gli suggerisce una voce che viene dalla ROM.
Il rovescio della
medaglia è la deresponsabilizzazione delle proprie azioni. “Io ho fatto
quello che potevo per accontentarti, se le cose non vanno non è colpa mia. Ma
tua”. Questo modus operandi diventa una costante auto-giustificazione alle
proprie azioni, in funzione della delega imposta da un’Autorità superiore,
imposta sotto la minaccia sottesa di uno sciopero nella fornitura di amore. Per
sopravvivere alle frizioni che si scontrano nel suo IO, il masochista deve
trovare un equilibrio fatto di ambiguità (giustificazioni e scuse…) lamentosità
verso il prossimo (per sminuirne ex ante le richieste), disfattismo (ok,
proviamo, ma sappi che non c’è speranza di risolvere il problema!).
C’è un piccolo
particolare, che stona con il modello comportamentale: la realtà. Il mondo non
sempre è disposto ad agire con ambigui molluschi. Prima o poi ti inchioda ai tuoi
doveri. Sociali, professionali, o affettivi. Ed’ è allora che sorge il fattore
di Stress nel masochista, direttamente dalla ROM. Preludio ad una iper-reazione
che può anche divenire incontrollabile. Ciò perché si ripropone lo scenario
genitori – figli. Superata una certa soglia di tolleranza, scatta la rabbia
genitoriale che si sostanzia in punizioni più o meno blande o incisive.
Il fanciullino che vive
nel masochista “evoca” la rabbia materna (o paterna) subita. Questa energia
così forte provoca la reazione di difesa del bambino che cerca in ogni modo di
attenuare la sofferenza della punizione subita, giustificata dalla classica
frase: “lo faccio per il tuo bene, un giorno capirai”. Ed è proprio
quest’affermazione a scatenare la psicopatologia. Il fanciullino, anche
se compresso da genitori asfissianti, sente in parte che in fondo i suoi
genitori lo facciano per proteggerlo, per farlo crescere meglio. C’è una parte
di sé “perversa” che interpreta queste punizioni come attenzione e “amore”, per
quanto patologico, riversato dalle figure genitoriali. In età adulta, il
masochista ha bisogno, sotto stress, di rivivere quell’esperienza a suo modo triste
ma rassicurante. Così, talvolta egli/ella diventa provocatorio. Quasi insegue
la rabbia degli altri. Perché quella rabbia è catartica. Il masochista può
scontare la punizione, ritornando a quello stato di grazia del bravo bambino
che segue la retta via, in cambio dell’amore dei genitori. In età adulto, tutto
“per un pugno di attenzione”. Un meccanismo perverso nel quale il Masochista si
crogiola, difficile da spezzare.
A livello fisico il
modello ideale masochista adulto rivede un corpo poco mobile e con molta
energia compressa. Gli occhi sono melanconici, quasi rassegnato a questo stato
di cose di un’energia calata dall’alto, rassicurante e punitiva allo stesso
tempo.
Il
rigido narcisista
Sembra assurdo, ma
anche nei nostri tre anni di vita, a livello emotivo tutti noi possiamo
inconsciamente avvertire il bisogno di essere accettati a livello sentimentale
e sessuale. Ciò vale in special modo verso il genitore dell’altro sesso.
Ovviamente, quando si
usa l’aggettivo “sessuale” in tale contesto, la cosa va ben specificata. Com’è
logico attendersi, qui non parliamo di un rapporto sessuale completo, come avviene
tra esseri umani adulti (e si spera senzienti). Qui l’eros è inteso in senso
Freudiano: quella sensazione di benessere psicofisico che il bambino prova nel
contatto fisico con il genitore dell’altro sesso, per sfregamento/induzione
dell’epidermide con un corpo grande, caldo, accogliente. Un corpo che
abbraccia, che protegge, che coccola. Che odora, che trasmette il ritmo vitale
del battito cardiaco, che è fermo nella presa ma dolce nel tenere il proprio
essere. Che nutre, attraverso l’allattamento. Che ci crediate o no, quella
sensazione di piacere rimane sedimentata nel nostro ego più profondo, e
ci rende talvolta “assetati” di rivivere l’esperienza, traslata in forma
adulta. Pensateci: spesso si legge che le donne vorrebbero vivere una
sessualità con il proprio partner fatta di abbracci, di carezze e di baci, di
un tono di voce basso e conciliante, di abbandono, di rilassatezza estatica, prima
dell’atto sessuale vero e proprio. Conseguenza naturale-riproduttiva, e non
premessa, per fare l’amore.
L’esatto contrario
della mitologia dei film pornografici, basati sulla visione di un potere
fallocratico, invasivo del copro femminile.
Tutto casuale? Non
proprio, secondo Lowen.
Il senso di rifiuto da
tale contatto erotico, secondo lo psicologo americano, fa sorgere un trauma nel
bambino, sedimentato nella ROM, e che agisce in background da adulto, come nei
casi precedenti. Il condizionamento educativo che verrà impartito al bambino
(religioso, sociale, culturale) fungerà da catalizzatore di tale gap affettivo,
sino a che il desiderio sessuale più maturo (es. in preadolescenza) verrà
vissuto come una colpa. “Perché lo faccio? È sbagliato! Da bambino mi
rifiutavano, mi allontanavano.” Elucubra la nostra centralina.
Di qui la scissione
interna, che può tramutarsi in un vero e proprio demone: da una parte, il
legittimo desiderio di una sessualità vera con il partner desiderato.
Dall’altra, l’incapacità di lasciarsi andare completamente a tale esperienza,
avvinti dai dubbi installati nel firmware. Da questo contrasto, la patologia
sessuale. Che può mostrare un diorama di sfaccettature: si va dalle continue
fantasticherie sessuali (es. eccessivo consumo di porno), alla masturbazione
(come diceva Woody Allen: “in fondo è fare del sesso con una persona che si
ama davvero”). Oppure alla iper-sessualità, che, per paura di “amare”
emotivamente il partner, può scadere nella ripetuta, ossessiva, meccanicità
dell’atto sessuale. All’opposto può esservi una eccessiva “mitizzazione”
dell’amore, visto in misura “platonica”, solo sentimentale, mentre l’amore
carnale viene visto come qualcosa di sporco e/o peccaminoso.
Ma perché accade tutto
ciò? Perché inconsciamente, l’adulto rigido-narcisista rivive il trauma
infantile sepolto nella ROM: il rifiuto!
E per evitare di affrontare tale demone, il cervello elabora delle strategie di
evitamento/compromesso dello spinoso problema che provoca sofferenza. Il rigido
narcisista ha letteralmente “paura” di lasciarsi andare sentimentalmente,
arrendendosi finalmente ai suoi sentimenti. Perché significherebbe essere
fragili, indifesi alla sofferenza del non essere accettati. Meglio buttarla sul
sesso anaffettivo. È più facile!
Ma allo stesso tempo
tale meccanismo genera un senso di inappagamento dell’anima, proprio perché
sessualmente il partner viene vissuto come un oggetto, e non un soggetto che
completa la propria esistenza, nel bene e nel male. Quindi il rigido-narcisista
ha bisogno continuamente di “alzare l’asticella”, per godere temporaneamente di
emozioni che colmino tale gap. E quando a livello sessuale ciò non accade,
egli/ella attua un “transfert” nella vita reale, sfidando sé stesso oltre ogni
limite, oltre ogni ragionevolezza, per raggiungere effimeri traguardi sempre
più elevati, in preda ad un perenne senso di insoddisfazione.
Anche in questo caso,
c’è il terzo incomodo con cui fare i conti: la vita reale. Il mondo, che non
sempre tollera i palloni gonfiati, per quanto capaci. Prima o poi, come accade
a tutti i normali esseri umani, sovviene la sconfitta. Che viene vissuta come
un dramma dal rigido-narcisistico, quasi una “Caduta degli Dei” che spazza via
il castello di carte che ha costruito per sostenere la sua esistenza. A livello
caratteriale, non è impossibile riconoscere tali individui: “sapientoni”
(talvolta inattendibili), efficienti, ostinati, controllati nei sentimenti, il
loro cuore è “mediato” dalla razionalità, vive nella perenne illusione di
essere amato senza amore. (ma L’amore con l’amore si paga, come canta
Fiorella Mannoia). Ovviamente tali livelli di stress da competizione, incidono
sul corpo, instradando tali soggetti verso le tipiche patologie da stress
(cardiovascolari, ulcera, emicranie, ecc.). A livello sessuale, vista l’incapacità
di amare realmente per la paura atavica del rifiuto, questi soggetti sono
sensibili a disfunzioni quali anorgasmia, eiaculazione precoce, impotenza. Ma
allo stesso tempo possono desiderare di vivere situazioni di perversione
sessuale, per “alzare l’asticella”, godendo dell’effetto dopaminico temporaneo,
destinato a spegnersi. Insomma, i rigidi-narcisisti sono incapaci di godersi
appieno la vita, con tutto il bene e il male che essa comporta, perché non si
liberano dai demoni atavici che li tormentano. Così cercano palliativi
competitivi. Il lato “positivo” di tale psicopatologie è il fatto che spesso
tale tensione interiore “esploda” nella creatività. Si ritiene infatti che
molti poeti, filosofi o scrittori, abbiamo sofferto della sindrome rigida-narcisista.
La postura e l’aspetto
fisica di queste persone, sono facili da immaginare. Prorompenti ad ogni costo
(muscoli o bisturi), mostrano fisicamente il lato competitivo assoluto del
proprio carattere.
In sintesi, cosa
accomuna i cinque modelli ideali descritti da Lowen?
I blocchi energetici.
Ad ognuno dei fenotipi idealizzati, corrisponde una “maldistribuzione”
dell’energia vitale, che si concreta in una differente postura propria, nonché
nelle diverse proporzioni degli arti e del busto.
La psicodinamica
restituisce indizi concreti che uno psicoterapeuta può verificare, come riprova
delle intuizioni ottenute dalle sedute psicoanalitiche.
C’è dell’energia che non rifluisce bene. Perché è compressa in delle strutture
difensive caratteriali che isolano il proprio IO. Già, il carattere. Quelle
mura che proteggono noi stessi e gli altri dall’esplosione o dall’implosione
dell’Ego, messi sotto stress. E che ci impedisce di comunicarci realmente gli
uni con gli altri, in quanto esseri fragili e mortali.
Ma questa, è un’altra
storia.
(Bibliografia. Caratteriologia, Armando
Traetta, Armando Editori)